Eccoci ad un altro fine settimana. Il settimo dall’inizio del 2012, eppure tutto quel che è accaduto in questa settimana, o quasi, sembra essere uguale a quanto visto la settimana precedente, a quanto accaduto in quella ancora prima e ancora e ancora e ancora…
Non discuto e non smentisco quanto scritto nel precedente post, qualche germoglio di primavera, qua e là, inizia a spuntare davvero a spuntare, ma da qui a dire che questi germogli possano preannuciare una nuova e bella stagione ne deve passare di acqua sotto i ponti.
Mi riferisco in particolare alla situazione politica italiana e, per estensione, a quanto si vede in Europa. A fronte di un governo italiano quanto mai attivo (nel bene e nel male, s’intende) si è assistito ad una recrudescenza del conservatorismo che rappresenta ai miei occhi il male assoluto dei nostri tempi.
Abbiamo un Presidente del Consiglio che ben prima dei fatidici 100 giorni può senza dubbio dire di aver fatto qualcosa per questo paese, ma come controaltare abbiamo una classe politica che ha rispolverato i cannoni della Restaurazione. Basti guardare alla questione dell’articolo 18, ai 2ooo e passa emendamenti al Decreto Cresci Italia, ai soldi del finanziamento pubblico ai partiti che finiscono nelle tasche di soggetti spregevoli, all’incapacità di trovare una seppur minima sintesi nel dibattito sulla revisione della legge elettorale, ai tagli mancanti dei vitalizi e degli enti inutili e chi più ne ha più ne metta.
In Europa non stiamo certo meglio. La situazione greca è tutt’altro che disinnescata, il Portogallo vacilla, la Spagna lo segue, la Germania non riesce ad essere locomotiva di cambiamento, la Gran Bretagna va per la sua strada e la Francia è incartata nella successione (forse) di quel politichetto (per statura e levatura intellettuale) che è Sarkò, l’Ungheria è già nel baratro e, ancora, chi più ne ha più ne metta.
Come potete vedere, dunque, avremmo molto di cui discutere e sinceramente non so neppure da che parte cominciare, ma se mi permettete vorrei dire due parole sulla spinosa questione relativa alla riforma del mercato del lavoro italiano. Fermo restando un giudizio di disprezzo nei confronti delle sparate di certi membri del governo con Monti in testa, la questione deve essere affrontata con coraggio e senso del fare, pura e semplice prassi. L’Italia ha un problema di lavoro, produttività e di disoccupazione giovanile e questo è sotto gli occhi di tutti. Bene, è giunta l’ora di discutere e di agire veramente.
Parliamo dall’articolo 18. Visto che ormai sembra essere il caposaldo della discussione da qualsiasi parte si guardi la questione. Proverò a dare un’interpretazione discutibile, ma quanto mai basata sui fatti. Non è vero, come sostengono i sindacati (compreso quello a cui sono ancora iscritto) che sia un falso problema. Una revisione di questo diritto è sacrosanta. Non possiamo nasconderci dietro ad un dito. Il mondo del lavoro italiano è ingessato. Non si assume. Certo, non si assume SOLO perché in Italia esiste l’articolo 18, ma ANCHE per questo motivo. Perché dunque non provare a ripensarlo e ridiscuterlo mettendo sul piatto qualche concessione ai datori di lavoro A PATTO CHE essi s’impegnino ad assumere? Proviamo a chiedere ad un disoccupato se preferisce lavorare con qualche garanzia in meno o stare a casa. Certo, si può controbattere dicendo che il problema dell’Italia è la MANCANZA di lavoro e l’inefficienza del sistema. Vero, verissimo. Parliamo anche di questo allora. Parliamo a tutto tondo di come rilanciare un sistema produttivo che sembra un malato terminale. Ovvio che dovremo parlare di pagamenti nei tempi e nei modi giusti, di snellimento ed efficienza della PA, di tassi sui prestiti alle imprese e di incentivi all’investimento, ma se coloro che hanno davvero soldi da investire (italiani o stranieri che siano) non lo fanno dichiarando espressamente che uno dei motivi è legato all’articolo 18 perché laicamente non c’impegnamo a rivederlo? Non capisco i tabù come non capisco il conservatorismo. Se i tempi cambiano e qualche diritto si perde a causa di scelte ed errori che comunque sono già stati commessi perché non vogliamo prendere atto della situazione, mettere un punto ed andare a capo? Insomma, anch’io non credo che il problema sia solo l’articolo 18 bensì il peccato originale sia piuttosto ascrivibile alla variegata pletora di ridicole forme di lavoro a tempo determinato ed indeterminato che rendono i lavoratori più precari di quanto non lo sarebbero in un mondo in cui l’articolo 18 non esistesse neppure e ci fossero – che so – 10 forme contrattuali in tutto.
La flessibilità è una cosa bella in teoria, ma in pratica, in Italia, non lo è, con buona pace di Monti. Ben vengano dunque proposte di revisione dei contratti di lavoro che facilitino le assunzioni a tempo indeterminato magari con forme di protezione del posto più “blande” dell’articolo 18 così come oggi lo conosciamo.
Quando si cambia, come dice il proverbio è certo quel che si perde, ma è assolutamente incerto quel che si troverà. Questo è pacifico e sacrosanto, ma in un’Italia come questa, sarei pronto a perdere buona parte di quel che vedo intorno a me pur di provare a cambiare seriamente qualcosa, pur con tutti i rischi connessi con “ignoto”!
Per il cambiamento serve coraggio, e perché no un pizzico di sano cinismo, ma quando – come di questi tempi – ci rendiamo conto che mantenere lo status quo ci condurrà certamente al declino, credo dovremmo farci forza, mettere da parte la paura e fare il fatidico passo in avanti.