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Qualcosa si muove?

131056771-636a8189-b1aa-4f13-af8f-87442354675dIn queste prime settimane di maggio, mentre in Italia il nuovo governo perde già la bussola su IMU, rimborsi elettorali, processi al Nano, ius soli, ecc. e corre affrettatamente in ritiro dopo la prima di campionato, in Europa e nel mondo qualcosa si muove.

Sono stato colpevolmente silenzioso in questi ultimi giorni, ma credo di potermi sbilanciarci dicendo che qualcosa intorno a noi sembra inizi davvero a muoversi.

Sul lato finanziario, la fortissima sterzata della banca centrale giapponese e il flusso costante di denaro sui mercati pompato dalla Fed iniziano a mostrare i loro effetti. Si assiste ad una potente rotazione di asset class, un restringimento degli spread, un indebolimento dell’oro e parallelamente una forte ripresa dei corsi azionari che, in paesi come Stati Uniti e Germania, macinano un record dopo l’altro. Se sarà vera gloria o piuttosto questi saranno ricordati come i prodromi della super-bolla che molti stanno profetizzando, lo vedremo, è però vero che, per adesso, tutto ciò giova enormemente al nostro disastrato paese che oggi può risparmiare parecchi miliardi di oneri sul debito da un così netto assottigliamento degli spread e dal contagio di euforia che piano piano prende piede.

Sul lato economico e politico, il fatto veramente nuovo è che lo scontro tra austerici e fautori di modelli keynesiani si è fatto più che mai infuocato dopo che quest’ultimi hanno segnato un paio di gol agli avversari. Per dovere di cronaca, metaforicamente, potremmo dire che il primo è un autogol per un fortunato rimpallo, mentre il secondo è un gol segnato grazie ad un incredibile svarione difensivo. Andiamo con ordine. L’autogol è del buon Niall Ferguson che, in un impeto d’ira, scrive su Twitter che Keynes avrebbe avuto una visione tanto fatalista del futuro a causa della sua omosessualità. Il gran gol invece si deve ad un giovane studente americano, tale Thomas Herndon, che d’un sol colpo si beve (o sarebbe meglio dire “sputtana”!) due delle punte di diamante della disciplina “d’acqua dolce” dell’austerity: Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff. Questo baldo studente di economia, infatti, nel rifare i conti del celebre Growth in a Time of Debt, si accorge che i calcoli su cui poggia la tesi di fondo secondo cui dal dopoguerra ad oggi i paesi con alto debito pubblico (> 90% del PIL) sarebbero cresciuti meno degli altri sono totalmente sballati a causa di un’errata formula inserita nei fogli di calcolo utilizzati per lo sviluppo di questo bestseller mondiale.

Sullo sfondo di questo dibattito, che solo apparentemente è accademico, si riaccendono le tensioni italo-tedesche sull’asse Schäuble – Draghi. Il primo accusa il governatore della BCE di parteggiare per il suo paese natìo nel momento in cui il governatore inizia a prendere in considerazione la possibilità di creare una sorta di bad bank in seno alla BCE in cui far confluire ABS (asset backed securities) emessi dagli stati europei così da liberare liquidità da utilizzare come volano per la crescita. Come al solito, ai tedeschi non va giù che si possano cercare soluzioni che esulino dalla sterile riproposizione del mantra dell’austerità. Come al solito, e nei limiti del proprio mandato, Draghi si conferma un governatore interventista e, per adesso, i risultati gli danno ragione.

Come sempre predico, la prudenza è d’obbligo. Se sarà vera gloria lo vedremo più avanti, ma la primavera pare portare qualche barlume di ottimismo in questo nostro storto mondo.

Parole Parole Parole

Parole parole parole, soltanto parole…

Così potremmo riassumere la giornata.

Un’ennesima occasione mancata o qualcosa di nuovo sotto il sole?

Partiamo con ordine. Partiamo dalle parole e dai fatti che ne sono seguiti.

Alle 13.45 viene pubblicata la decisione della BCE di non modificare i tassi, alle 14.30 parla Draghi… Ed i mercati non la prendono molto bene, per usare un eufemismo.

Perché tutto ciò? Cosa ha detto e cosa NON ha detto quel Mario? Cosa si aspettava il mercato?

Come ho detto, partiamo dalle parole. Draghi ha rinnovato la minaccia. L’Euro è irreversibile e la BCE farà whatever it takes. “Farà”… “whatever”… verbi al futuro, termini generici… Tutto ciò non piace agli operatori del mercato che, senza pensarci neppure troppo su, vendono e vendono e ancora vendono tonnellate di asset denominati in Euro. Da lì il crollo. Crollano le borse e crolla la moneta (e questo forse per l’asfittica economia italiana proprio male non è, ma questa è un’altra parte della storia).

Ora, lungi da me un’analisi filologica o un’interpretazione oracolare delle parole del Governatore, ma è un fatto che abbiamo assistito al più classico caso di sell on news, perché in effetti la news, la notizia, è una non-notizia. Quanto ci ha detto oggi Draghi già lo sapevamo, o forse no? Certo, sapevamo che nel board della BCE è maggioritaria ormai la voce (ed il voto) di coloro che intendono intervenire, sappiamo che solo la Bundesbank non vuole riattivare gli strumenti non convenzionali atti al raffreddamento degli spread, quel che però non sapevamo è che Draghi lasciasse campo libero agli assalti della speculazione estiva che, com’è noto, ha ampi margini di manovra quando c’è volatilità e bassi volumi, come accade generalmente in agosto.

Perché allora tutto ciò? Perché prestare il fianco ad una sempre più probabile fuga di capitali dalla Vecchia Europa? Ecco, io credo che Draghi abbia voluto dare un segnale forte alla politica europea. Solo a Bruxelles si possono decidere le sorti del continente. Solo a Bruxelles è possibile emendare lo statuto del nascente meccanismo europeo di stabilità (ESM), in modo che questo soggetto possa, con un’eventuale licenza bancaria, intervenire attivamente sui mercati secondari e finanziarsi presso la BCE, come fanno le normali banche. Solo una cessione di sovranità a Bruxelles potrà scongiurare il ripetersi di scelte di politica economica scelerate come quelle che abbiamo visto in Grecia, in Spagna e perché no in Italia.

Insomma, valutare le parole parole parole (soltanto parole…) di Draghi di oggi, non è facile, ma voglio essere ottimista. Voglio pensare che non tutto il male venga per nuocere e che, anzi, Draghi volesse proprio sfruttare un’accelerazione netta e cattiva al ribasso dei mercati per far capire ai politici che il cerino in mano ce l’hanno pur sempre loro.

Sarà davvero così? Non lo so, ma non vedo perché non sperarci, in fondo, non ci sono alternative… Se non le funi del cielo…

The dark side of the Force

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Mettetela come volete, ma ho proprio l’impressione che il “lato oscuro della forza” abbia annebbiato le menti dei policy makers europei e non solo.

Capisco che le industriose formichine teutoniche e nordiche si finanzino a tassi zero sulle spalle delle cicale sperperatrici del sud, ma prima o poi l’inverno arriverà anche per loro. Le cicale tra poco non avranno più monetine cosicché smetteranno di comprare i bund tedeschi. Se non fosse che è in gioco la vita di ciascuno di noi, tutto quel che sta accadendo in Europa negli ultimi giorni sarebbe quantomeno ironico.

La Germania è sparita. La Merkelona si sta preoccupando solo di non prendere una sberla troppo forte alle elezioni della prossima primavera.
La BCE è sparita, ma non posso e non voglio credere che abbia Draghi abbia le mani così legate quanto qualcuno vuol farci credere.
La Grecia ci chiede di dimenticarci di lei almeno fino al 2014.
La Catalogna in crisi di liquidità chiede ossigeno a Madrid… Che ha le bombole vuote (od al più ipotecate per comprare Cristiano Ronaldo!)… Che suona al campanello della BCE dove qualcuno risponde al citofono con un “Mario non c’è, è uscito”.
Per non parlare della querelle tutta italiota tra Sicilia e governo centrale, tra Lombardo e Roma Ladrona… Della serie “da quale pulpito…”.

Ed in questo gran polverone, con Milano e Madrid sull’orlo del collasso con azioni a saldo che non trovano più un floor ed una continua emorragia di capitali, ecco l’uovo di Colombo dei regolatori: vietiamo lo short sui titoli bancari. Attenzione però, non lo short in sé, lo short “di tutti”, solo lo short “di alcuni”. Ecco, bene, provate a chiedervi chi paga le perdite dei pesci grossi. Il solito parco buoi, as usual.

Bravi, non c’è che dire! Ora sì che siamo a posto! Così sì che si riconquista la fiducia!

Ora, io mi domando, possibile che chi ci guida, chi ci comanda in ogni ambito della nostra vita di privati cittadini sia così inetto da non accorgersi dei risvolti delle proprie azioni? Possibile che l’incompetenza sia il minimo comune denominatore del potere?

Siccome mi rifiuto di crederlo, allora DEVE esserci dolo, DEVE esserci una qualche volontà nel perseguire scelte che vanno contro gli interessi di noi poveri mortali.

Ho paura e non ve lo nascondo.

Stati Uniti o Divisi… d’Europa?

La domanda è dirimente.

La situazione di stallo che ci stiamo portando dietro da mesi non può durare in eterno. Ci sarà necessariamente un momento di rottura e saremo di fronte ad un bivio. Non ci sono soluzioni alternative, non ci sono terze vie, non c’è una soluzione più semplice di un’altra e ciascuna soluzione comporta costi, rischi e difficoltà. Ripeto, una sola cosa è certa però: o si va da una parte o si va dall’altra.

Non so se sia corretto parlare di europeismo, parola che sa tanto di ideologia, ma mi sembra corretto dire, fin da subito che sono europeista.

Ora, cerchiamo di capirci qualcosa, cerchiamo di argomentare le due strade, che corrispondono a due posizioni così che ciascuno faccia le proprie valutazioni.

Partiamo dall’analisi dello status quo. L’Europa è una babele. Tante lingue quante sono le bandiere degli stati nazionali. Realtà sociali e produttive diverse in ogni stato nazionale e di conseguenza ciascuno con una bilancia dei pagamenti estremamente variegata. Non esistono barriere doganali e si ha una moneta unica, l’Euro ed una banca centrale sovranazionale. Questa situazione, evidentemente, è fragile, estremamente fragile. La crisi del debito sovrano emersa negli ultimi anni ne è la prova: non può sopravvivere un soggetto economico con al suo interno “il diavolo e l’acqua santa”, una bilancia dei pagamenti “virtuale” che è data dalla sommatoria delle bilance statali, che è denominata in euro, ma che presenta al suo interno debiti e crediti la cui sovranità, ahimé, è nazionale (appartenente ai singoli stati).

Prima o poi il modello implode… E ci siamo molto vicini.

Dunque ci sono due strade, o facciamo un grande stato a livello continentale con un governo, un parlamento, un sistema produttivo, un mercato del lavoro, ecc. oppure facciamo a meno dell’Euro, e dell’Europa, e ciascuno va da sé.

Vediamo.

La prima soluzione, che io auspico, lo dico e lo ripeto, comporta che ciascuno stato sovrano rinunci a buona parte se non a tutta la propria sovranità, si facciano elezioni europee, si uniscano tutte le realtà nazionali.

Qui si aprono due ordini di problemi. Il primo, e più difficile da risolvere, è la questione meramente politica. Siamo disposti in Italia, in Germania, in Finlandia, ecc. a “parlare (politicamente) la stessa lingua”? Siamo disposti a mettere da parte il patriottismo nazionale, a favore dell’internazionalismo (parola che sa tanto di socialismo ottocentesco e ammesso che sia giusto definirlo così). A questo problema non c’è risposta. Si possono fare tutti i sondaggi del mondo, ma una risposta a questa domanda potrebbe venire solo dalle urne. Solo i cittadini europei potrebbero dire si o no all’integrazione. Il secondo problema e tutto economico. Unire gli stati vorrebbe dire mutualizzare debiti e crediti, trasformare la BCE in una vera banca centrale, vero prestatore di ultima istanza, ma anche unificare il mercato del lavoro e il welfare. Si badi bene, i pro di questa scelta sarebbero in primis la cancellazione del problema debito, che scomparirebbe d’un colpo e una più equa redistribuzione della ricchezza. I contro però, che non sono da poco, riguardano appunto la redistribuzione. In una prima fase, i paesi periferici di oggi, diventerebbero in modo ugualmente veloce la periferia d’Europa, i paesi core, invece, diventerebbero più ricchi di quanto già non siano. Perché? Semplice. Il denaro in un mercato libero si muove verso i poli più attrattivi (economicamente parlando, verso coloro che hanno una bilancia commerciale in attivo), dove, di conseguenza, assisteremmo ad un aumento dei salari e dei prezzi. Noi, come ho sentito dire più volte, in questa prima fase, potremmo diventare la “Calabria d’Europa”, i salari scenderebbero e con loro i prezzi. Salvo però assistere nel medio/lungo periodo ad un riequilibrio della situazione in quanto la bilancia dei pagamenti quella è, la moneta quella è, il mercato interno pure, ecc.

La seconda soluzione è l’abbandono dell’Euro come moneta unica. Punto.

Se dal lato politico questa soluzione sarebbe più semplice, non ugualmente lo sarebbe da quello economico.

Politicamente sarebbe tutto più semplice perché ognuno andrebbe per la sua strada, chi con la propria grandeur, chi con il proprio orgoglio patriottico, chi con le sue regole, chi con le proprie mancanze. Soluzione semplice, è vero, ma soluzione che sarebbe assolutamente antisociale e anti-europea. A quel punto potremmo porci la domanda: perché abbiamo buttato via sessant’anni di storia dal dopoquerra ad oggi?

I veri problemi, però, nascono sul piano economico e da lì si propagano. Tutti i paesi periferici col ritorno alla propria moneta vedrebbero i propri debiti e crediti convertiti nella nuova valuta. Alcuni paesi vedrebbero apprezzare la propria valuta (i paesi con bilancia commerciale in attivo), altri invece vedrebbero una forte svalutazione delle proprie monete (PIIGS in testa), con annessa notevole incazzatura degli investitori esteri! Avremmo dunque una frattura, almeno nel breve/medio periodo. Alcuni paesi farebbero certamente default, altri, i ricchi, si arricchirebbero. La difficoltà a quel punto sarebbe forte per i periferici che a quel punto dovrebbero far di tutto per risalire la china. Forse potrebbe non trovarsi molto male l’Italia che ha una bilancia pressoché in pareggio, ma Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia dovrebbero svalutare di brutto la propria moneta imponendo un impoverimento generalizzato della popolazione e innescando così tensioni sociali difficilmente quantificabili. Alla lunga, anche in questo caso, non è detto che non possano riprendersi, anzi. L’Argentina è la prova che è possibile farcela, ma a quale costo?

In effetti, in una situazione del genere per l’Italia dovremmo fare un discorso a sé. La propria forza nell’export è evidente, ma potrebbe reggere l’impatto di un ritorno alla lira solo con riforme strutturali (che forse da soli non siamo in grado di fare, come abbiamo dimostrato negli ultimi 30 anni) e tali da riavviare un mercato interno (lato produzione e lato consumi) che sarebbe più asfittico, almeno nel breve periodo, di quanto non lo sia già adesso.

Insomma, dove volete andare? Quale strada scegliete?

Pensateci con attenzione, ma fate presto, il tempo stringe.

Someone is lying (still)?

Dopo una settimana passata con la testa altrove, oggi trovo il tempo di leggere un po’ di giornali.

Stamattina mi cade l’occhio su questa intervista: http://www.corriere.it/economia/12_marzo_04/non-siamo-un-servizio-pubblico-le-banche-devono-guadagnare-dario-di-vico_66d690d2-65d0-11e1-be51-f4b5d3e60e3d.shtml

Per farla breve, il presidente dell’ABI, Giuseppe Mussari, sconfessa buona parte della strategia impostata dal Governo sulla questione liberalizzazione dei servizi bancari. Interessante è lo sfogo con il quale egli dichiara (responsabilmente e sinceramente, io credo) che le banche non sono società di mutuo soccorso e che, anzi, devono pensare al profitto in un sistema che premia SOLO il profitto. Il punto che però mi ha particolarmente colpito, in giorni in cui si ha per la mente solo la parola “crescita”, riguarda la dichiarazione secondo cui le banche starebbero facendo ri-affluire il necessario credito alle imprese.

Poi, però, sfortunatamente, mi sono imbattutto in un articolo del Financial Times del 27 febbraio relativo alle attese antecedenti al LTRO II, che si è tenuto regolarmente questo mercoledì, e riporta un sondaggio effettuato da SocGen su di una trentina di banche europee.

Come si può notare, la maggior parte di queste banche non prende posizione e dichiara (più o meno omertosamente…) di non aver ancora deciso se aderire ed eventualmente cosa fare dei soldi messi sul piatto dalla BCE per il rilancio dell’economia continentale. Altre dichiarano che utilizzeranno questo prestito per rimettere in sesto i loro bilanci. Altre dichiarano che non aderiranno. Infine 7 banche dichiarano che useranno quel denaro per il carry trade (ovvero, prenderanno a prestito denaro a basso costo in modo da poterlo investire in asset fruttuosi – o almeno si spera che lo siano – così da ripagare le svalutazioni effettuate sui titoli di stato dei PIIGS).

Ed ecco la sorpresa! Guardate qui sotto quali sono queste sette banche. Banche che dunque dichiarano espressamente di NON reinvestire i soldi presi in prestito dalla BCE per rilanciare la crescita:

LE BANCHE ITALIANE (più una spagnola, Bankinter…)!!!!

Con buona pace dei soldi erogati all’economia reale… Una domanda allora sorge spontanea: non è qualcuno qui sta mentendo?

Io un’idea me la sono fatta. Provate ad indovinare anche voi…

Un motivo in più per stare con Monti

Oggi sul Financial Times è uscito un articolo il cui titolo mi ha incuriosito: “Europe rests on Monti’s shoulders”.

Ho iniziato a leggerlo e, una volta tanto, si è risvegliato in me l’orgoglio di avere, dopo molto tempo, un Presidente del Consiglio credibile al punto da portare una vera ventata di ottimismo fin nella City dove, com’è noto, non siamo mai stati molto amati e rispettati.

Come è già successo, vi tradurrò le parole contenute nell’articolo di Philip Stephens, certo di dare uno spunto di riflessione anche a voi.

Magari, dopo aver letto l’articolo, potrete come me ingoiare l’amara medicina storcendo un po’ meno il naso.

L’Europa sta in piedi sulle spalle di Monti

L’Italia è tornata. Angela Merkel sta in testa alla classifica del potere in Europa. Il francese Nicolas Sarkozy può vantarsi di essere il leader più energetico del continente. Mario Monti è il più interessante. Dopo un’assenza durata un paio di decadi, l’Italia è ritornata sul palco. Il destino di Monti potrebbe essere il destino dell’intera Europa. Qualche giorno fa la Casa Bianca ha affermato che Monti a breve incontrerà Obama e descrivere questo annuncio come caloroso è quanto meno eufemistico. Monti ed il presidente americano discuteranno “dei provvedimenti generali che il governo italiano sta approntando per ristabilire la fiducia dei mercati e rinvigorire la crescita attraverso riforme strutturali, nell’ottica di un’espansione della difesa finanziaria dell’EZ”. Traducete e leggerete tra le righe che “il presidente Obama sta dietro a Monti in tutti i sensi, anche quando questi mette pressione alla signora Merkel”.

C’è stato un tempo in cui l’Italia aveva qualcosa da dire in Europa. Gli Italiani sono stati campioni nel grande sforzo di integrazione degli anni Ottanta. Il summit di Milano del 1985 fornì la spinta verso il mercato unico. Cinque anni dopo in un meeting a Roma si approntò la tabella di marcia per l’entrata in vigore dell’Euro. Questo fornì le condizioni per la caduta di Margaret Thatcher: il suo “No, No, No” alla moneta unica portò allo scontro nei Tories. Per quanto possa apparire strano, un tempo i Conservatori inglesi erano per la maggior parte europeisti.

L’era di Silvio Berlusconi ha messo fine all’influenza italiana. Sebbene egli avesse sempre ricevutoo un caloroso benvenuto da Vladimir Putin, i principali leader europei lo hanno sempre evitato in quanto era visto come fonte d’irritazione ed imbarazzo. Monti, un accademico serio con un piano altrettanto serio, è differente secondo tutti i punti di vista. Berlusconi faceva rozze battute sulla signora Merkel, Monti parla con lei di questioni economiche.

C’è un altro italiano, poi, al tavolo principale. Mario Draghi – l’altro Mario – ha fatto suoi i titoli delle principali testate nella sua ancora breve presidenza della BCE. Per quanto voglia l’ortodossia economica, egli ha presentato se stesso come un vero tedesco. Sebbene la sua direzione abbia lanciato una grande operazione di rifinanziamento, una sorta di quantitative easing, egli è riuscito a scaldare il sistema bancario ed ha portato una relativa calma sulle piazze finanziarie. L’argine della BCE non sarà permanente, ma ha creato spazio per i politici per negoziare il prezioso accordo fiscale caldeggiato dalla signora Merkel.

Per quanto ci siano ancora grosse nubi sulla Grecia, ci sono segnali che la crisi dell’Euro sia passata almeno dalla fase acuta a quella cronica. La questione è tutta sulle spalle di Monti dato che le prospettive di lungo termine dell’Euro si decidono proprio in Italia. Se la Grecia dovesse cadere sul lato della carreggiata, Spagna, Portogallo ed Irlanda si troverebbero proprio sulla linea di fuoco, ma sarà l’Italia il vero snodo della questione. Se la terza più grande economia dell’EZ non riuscirà a tracciare un percorso economico credibile, l’Euro inteso come progetto pan-europeo non avrà un futuro.

Monti ha una coppia di assi nella manica. Le misure di austerità si stanno già rivelando impopolari, ma i politici italiani eletti non mostrano di essere in gran forma. Berlusconi spara dalle retrovie, ma la sua coalizione di centro destra sarebbe distrutta d’un colpo in un’elezione a breve termine. Monti può quindi pensare di avere un altro anno a disposizione, fino alle elezione della primavera del 2013, per approntare la sua strategia e farla correre. La seconda carta che Monti può giocarsi è di poter parlare francamente al potere politico tedesco. Il suo curriculum di riformatore liberale, affermatosi nel corso degli anni alla Commisione Europea, è indiscutibile. La sua condotta mette in discussione lo stereotipo dell’uomo del sud-Europa come inconcludente e pigro. E Obama lo appoggia quando Monti afferma alla signora Merkel che il rigore indefinito potrebbe trasformare il patto fiscale in un vero e proprio suicidio.

Sospetto al contrario che Sarkozy soffra l’intrusione di Monti. Il presidente francese non è uno da condividere le luci della ribalta. Finora Parigi si è avocata la leadership nel patto franco-tedesco, ma, in realtà, la chimica tra il presidente francese ed il cancelliere tedesco è tutt’altro che buona. Come spesso succede, adesso Sarkozy ha più interesse per il successo di Monti più che del suo. Sebbene abbia incontrato le élite francesi al recente colloquio anglo-francese, non credo molto nella loro insistenza nella sopravvivenza dell’Euro come di un fatto essenziale. Quello che intendono, penso, è che un’eventuale rottura della moneta unica vedrebbe la Francia costretta nell’Europa di serie B così da privarla di ogni rimanente velleità sul piano dell’influenza globale.

Non ci sono garanzie che Monti abbia successo. Grandi tagli alla spesa e l’incremento nella tassazione sono una cosa, ma la vera sfida è rappresentata dalla liberalizzazione dell’economia. Su questo piano egli deve confrontarsi con un coacervo di attività che chiudono (o chiuderanno), pratiche restrittive e cartelli “affittasi”. Questa settimana le città italiane sono state gettate nel caos dallo sciopero dei tassisti e dei camionisti. Avvocati, farmacisti e distributori di benzina affilano le armi contro il piano che prevede di cancellare i loro privilegi. Non sarà facile. Queste scelte sono inevitabili. Il dibattito sul futuro dell’EZ èdisperatamente polarizzato. Da un lato stanno coloro che credono che l’impresa potrà aver successo soltanto se il cattolico sud-Europa assorbirà la cultura protestante del nord fatta di parsimonia e duro lavoro. Dall’altra stanno coloro che credono che l’unica via verso il successo sia convincere i tedeschi a spendere ed indebitarsi di più sottoscrivendo i debiti dei loro vicini del sud. Entrambi i ragionamenti, purtroppo, sono però completamente ingenui. La sfida che affronta l’Europa cristallizzata dalla crisi dell’Euro è di adattarsi in un mondo in cui il Vecchio Continente non è più in grado di dettare i rapporti commerciali.

Politici ed economisti possono argomentare tutto quello che vogliono riguardo ai meriti e demeriti della svalutazione e affinamento del bilanciamento tra rettitudine fiscale e supporto della domanda, ma l’unica vera questione è se l’Europa possa davvero competere in un mondo in cui l’Occidente non avrà più la grande influenza del passato ed è proprio in quest’ottica che quello che sta facendo Monti in Italia conta davvero.

La strana querelle delle ricapitalizzazioni bancarie

C’è qualcosa che non riesco proprio a capire in queste concitate settimane di discussione attorno alla necessità di capitale delle banche italiane e riguarda proprio il nocciolo della questione. Insomma, le banche italiane hanno o no bisogno di capitale?

Lasciamo stare per un attimo le pressione dell’Autorità di Vigilanza Europea (la solita EBA), che – volenti o nolenti – è un organo di emanazione politica nominato dal Parlamento Europeo e concentriamoci sul problema generale.

Che cosa deve fare una banca nei sistemi economici moderni? Deve prestare denaro. I ricavi di questa “industria del credito” infatti vengono da interessi e commissioni sui prestiti concessi alla clientela, persone fisiche o aziende che siano. Per fare questo “prodotto”, la banca deve farsi prestare la materia prima da chi la produce (la BCE, se si parla di euro, per esempio) o dai cittadini e deve impiegarla affidandola alla clientela previa un’attenta analisi del soggetto cui si va a concedere il credito il quale dovrà essere in grado di restituirlo maggiorato di interessi e commissioni coi tempi e coi modi accordati dall’istituto erogante. Tutto qui, nient’altro.

Vero è che la banca deve avere una scialuppa di salvataggio a fronte di eventi improvvisi, ed è per questo che le viene richiesto di accantonare una certa quota di capitale a patrimonio per poter far fronte ad improvvise crisi di liquidità, ecc.

Se la situazione è questa e ammesso che l’EBA abbia misurato tutte le banche (almeno le italiane…) col solito metro, com’è possibile che Unicredit abbia scelto la perigliosa via di chiedere un aumento di capitale monstre al mercato e le altre tre banche cui viene richiesto un’adeguamento patrimoniale – MPS, UBI e BPM – se la possano cavare con semplici espedienti di vernissage, rivedendo alcune voci di bilancio e prevedendo dismissioni di asset. Mmmhhhh… qui gatta ci cova.

Delle due l’una. O Unicredit era veramente alla canna del gas, come si dice da queste parti, ma non lo credo vista la coraggiosa scelta di svalutare gli avviamenti nel 3° trimestre e la scelta di non accelerare su dismissioni colossali e peraltro già previste, come quella di Pioneer oppure sono le altre banche che, vista la rischiosità dell’ormai riuscita (per quanto affatto scontata!) operazione di aumento di capitale di Unicredit, si stanno prostituendo in Banca d’Italia per non dover ricorrere al mercato.

Personalmente propendo per la seconda e, visto che il colosso i suoi rischi se li è già presi, credo che la Banca d’Italia non dovrebbe essere tanto tenera con le tre di cui sopra… e se non sarà il mercato… credo che sarà lo Stato a ricapitalizzare almeno una di esse…

Potrebbe entrare la politica di mezzo… è vero… ma questo discorso ci porterebbe moooolto lontano.

Attendiamo e vediamo, sperando nel minor male…

Smaltimento rifiuti

La mossa di Super Mario Draghi di queste ore è quantomeno ambivalente (per quanto, per adesso, i mercati europei l’abbiano festeggiata con un certo entusiasmo). Quel che il governatore della BCE farà a partire da domani è mettere a disposizione una quantità illimitata di liquidità (a tassi attorno all’1%) con scadenza triennale per gli istituti di credito che fanno parte dell’Europa “con l’euro” (i 17, per intenderci) a fronte dell’emissione da parte degli stessi istituti, che ne facciano richiesta, di titoli di stato garantiti dallo stato come collaterale alla concessione del prestito.

In perfetto stile Super Mario, il governatore dà un colpo al cerchio ed un colpo alla botte. Analizziamo la mossa nel dettaglio.

La premessa a tutto il ragionamento sta ancora sulle spalle della Merkelona che, ancora oggi, non vuole che la BCE (ECB in inglese, come nella figura) si faccia prestatore di ultima istanza e che i paesi PIIGS (e non solo…) rimettano a posto i loro disavanzi ed i loro debiti mediante una severa disciplina fiscale. Questo può essere considerato pacifico e, perché no, sacrosanto, il problema è che la situazione pare ormai troppo deteriorata e, presumibilmente, i paesi in difficoltà senza l’appoggio di una mano davvero pesante e forte pare non possano resistere alle pressioni di un mercato così cinico e finire a gambe all’aria.

La mossa di Draghi, quindi, sta proprio nell’ambivalenza di dover dare un contentino ai tedeschi, da un lato, e dall’altro dare una mano (forte) ai PIIGS. Come? Presto detto. Draghi dice: “Io non posso cominciare a comprare a man bassa titoli di stato sul mercato perché la Germania non vuole che immetta nel sistema nuova moneta dunque utilizzo questo escamotage: faccio in modo che le banche – che devono fare da motore della ripresa – abbiano capitali (che al momento non hanno disponibili e svincolabili perché devono iscrivere a bilancio forti minusvalenze sui titoli del debito pubblico) con un prestito illimitato che fornisco io a tassi vantaggiosi concedendo loro di emettere bond garantiti prendendomi in carico questi titoli come collaterale (garanzia) del prestito di cui sopra”.

Intelligente mossa, caro Mario, ma c’è un problema. Supponiamo di dover affrontare il problema della spazzatura a Napoli. Abbiamo un surplus enorme di spazzatura, come si risolve il problema? Si può ripristinare una situazione decente solo se ci muoviamo in due direzioni, da un lato, smaltiamo l’eccedenza con discariche nuove e termovalorizzazione e dall’altra insegnamo alla gente a fare la raccolta differenziata. Ecco, al momento, Draghi si sta occupando di smaltire l’eccedenza, ma siamo sicuri che parallelamente stia insegnando ai cittadini ad attuare una sana politica di raccolta differenziata? Non è che se questi si accorgono che c’è qualcuno che smaltisce la loro sporcizia siano incentivati a fregarsene e continuare con le malsane e menefreghistiche abitudini? Ecco, provate a sostituire la parola ‘cittadino’ con la parola ‘banca’ e magari riuscirete a capire la metafora.

Badate bene, vedo di buon occhio la scelta di Super Mario, ma attenzione la moral suasion spesso non basta a cambiare le cattive pratiche economiche! Quel che dovresti fare, secondo me, caro Mario, è controllare che le banche, cui tu presti denaro, impieghino davvero sul mercato la liquidità che tu concedi loro, o meglio ancora nelle imprese e nello sviluppo. Forse non è esattamente il tuo mandato, ma tu sei un super-uomo e potresti iniziare a fare la voce grossa, in fondo, in questo periodo la fanno tutti!

Solo così, io credo, si potrà da una parte affrontare l’emergenza e dall’altra lavorare davvero ad una crescita più sicura e sostenibile.

Corsi e ricorsi…

Conoscere il passato non è assolutamente garanzia per il futuro, su questo non ci piove. È pur sempre vero però che è bene conoscerlo – e non dimenticarlo! – perché spesso quanto è avvenuto nel passato può darci interessanti chiavi di lettura per quello che può succedere nel futuro.

A tal proposito, vi propongo una lettura interessante, che potete trovare in lingua originale qui (http://www.guardian.co.uk/global/2011/nov/24/debt-crisis-germany-1931) oppure, se vi fidate, leggerne una mia traduzione (per quanto raffazzonata) di seguito:

Nella crisi del debito di oggi, la Germania rappresenta gli Stati Uniti del 1931
La storia della Germania mostra che imporre il declino economico ad altre nazioni induce ad immagazzinare problemi per il futuro

“Un paese che affronta un abisso economico e politico. Il governo è sull’orlo della bancarotta e persegue feroci politiche di austerità, si assiste ad enormi tagli nel pubblico impiego e le tasse vengono drasticamente aumentate, l’economia crolla ed il tasso di disoccupazione esplode, la gente lotta per strada mentre le banche collassano ed il capitale internazionale abbandona il paese. È la Grecia nel 2011? No, la Germania del 1931.
Il capo del Governo non è Lucas Papademos, ma Heinrich Brüning. Il “cancelliere della fame” tagliò per decreto le spese del governo per decreto, ignorando il parlamento mentre il PIL cadeva senza freni. Due anni dopo Hitler avrebbe preso il potere, otto anni più tardi sarebbe iniziata la Seconda Guerra Mondiale. La situazione politica di oggi è ben differente, ma le analogie economiche sono spaventose.
Come nei paesi in crisi di oggi, il problema fondamentale della Germania del 1931 era rappresentato dal debito estero. Gli Stati Uniti erano il più grande creditore della Germania, i cui debiti erano denominati in dollari americani. Dalla metà degli anni ’20, il governo tedesco aveva preso in prestito all’estero – contraendo così debiti esteri – ingenti somme per far fronte al pagamento dell’oneroso debito di guerra imposto da Francia e Gran Bretagna. Quel medesimo debito estero – si ricordi – aveva finanziato i ruggenti anni ’20 della Germania, il boom economico scaturito dopo l’iperinflazione del 1923. Come Spagna, Irlanda e Grecia nei nostri anni, il risveglio della Germania degli anni ’20 era stato causato da una bolla nel credito.
La bolla puntualmente scoppiò quando i mercati finanziari degli Stati Uniti crollarono nel 1929. Investitori e banche furono colpite duramente, persero fiducia ed ridussero i loro rischi, specialmente ritirando gli investimenti in asset europei. I flussi di credito verso la Germania, l’Austria e l’Ungheria si fermarono all’improvviso. Gli investitori americani, non fidandosi più, non volevano più marchi tedeschi, bensì solo dollari, moneta – ahimé – che la banca centrale tedesca, la Reichsbank, non poteva stampare. Il ritiro in massa di dollari dalla Germania – soprattutto dai depositi nelle banche tedesche – condusse rapidamente all’esaurimento delle riserve valutarie della Reichsbank.
Per poter ottenere dollari, la Germania avrebbe dovuto trasformare l’enorme deficit delle partite correnti in un surplus. Ma, come accade nei paesi in crisi oggi, la Germania era intrappolata in un sistema monetario con tassi di cambio fissi, il gold standard, e non poteva svalutare la propria moneta. Si scelse di abbandonare il gold standard ed il cancelliere Brüning ed i suoi consiglieri economici iniziarono a temere che gli effetti di una forte svalutazione della moneta avrebbero condotto ad un replay del 1923, all’iperinflazione.
Senza liquidità in dollari dall’estero, l’unico modo per il governo di ribaltare i saldi correnti era quello di tagliare costi e salari. In due anni Brüning tagliò la spesa pubblica del 30%. Aumentò le tasse e tagliò i salari e le spese di welfare di fronte ad una montante disoccupazione ed una crescente povertà. Il PIL scese del 8% nel 1931 e del 13% l’anno successivo, la disoccupazione crebbe del 30%, e il denaro continuò a fluire fuori dal paese. Le partite correnti passarono così da un enorme deficit ad un piccolo surplus.
Il problema però era che a quel punto non c’erano più abbastanza dollari disponibili nel mondo. Nel 1930 il Congresso degli Stati Uniti aveva introdotto la tariffa protezionistica Smoot-Hawley che teneva le importazioni fuori dal paese. I paesi con debiti denominati in dollari erano così tagliati fuori dal mercato degli Stati Uniti e non potevano così ottenere i soldi necessari ad onorare i loro debiti. La situazione non migliorò neppure quando il presidente Hoover propose una moratoria di un anno per tutti i debiti esteri tedeschi. Alla moratoria si opposero sia la Francia – che pretendeva il pagamento delle riparazioni di guerra – sia il Congresso degli Stati Uniti. Quando nel dicembre del 1931 alla fine tale moratoria fu approvata ormai era troppo poco e troppo tardi.
Nell’estate del 1931, infatti, le banche tedesche avevano cominciato a cadere causando sia una stretta creditizia che la necessità di grandi pacchetti di aiuti pubblici per salvare i gruppi più grandi. Le banche dovettero essere chiuse ed il governo tedesco dichiarò il default. La moratoria di Hoover ed la politica di espansione fiscale sotto il successore di Brüning, von Papen, arrivarono troppo tardi: fallimenti e disoccupazione permisero ai nazisti di guadagnarsi terreno politico.
I paralleli con la situazione economica di oggi sono spaventosi: Grecia, Irlanda e Portogallo devono perseguire politiche di austerità feroci imposte dalla pressione dei paesi creditori e dei mercati finanziari al fine di ribaltare i saldi correnti da deficit a surplus, ma il tasso di disoccupazione in Grecia è al 18%, in Irlanda al 14%, in Portogallo al 12% ed in Spagna addirittura al 22%. E coloro che potrebbero aiutare non fanno abbastanza. La Germania ed i banchieri centrali tedeschi chiedono drastica austerità e danno soltanto aiuti insufficienti in cambio – troppo poco e troppo tardi, anche in questo caso.
Molto si sarebbe guadagnato dalla Germania nel 1931 se gli Stati Uniti – e anche la Francia – avessero fornito la liquidità necessaria alle banche ed al governo tedesco. Forse la radicalizzazione politica sarebbe stata evitata. Per gli Stati Uniti, poi, coincise con la svolta isolazionista. Non vollero essere coinvolti nelle disordinate questioni europee.
Oggi la Germania gioca il ruolo degli Stati Uniti. Sia il parlamento che il governo esitano a fornire l’aiuto necessario ai paesi in crisi: nel quadro del EFSF la Germania vorrebbe garantire solo fino a 211 miliardi di euro di prestiti per ogni paese in crisi. Non è abbastanza. Nel 2008 le garanzie messe a disposizione per il solo sistema bancario tedesco furono di 480 miliardi di euro.
La Germania sia attacca ancora al proprio surplus nelle partite correnti. Queste sono, per definizione, deficit per i paesi in crisi e dunque non consentono a questi ultimi di guadagnare i soldi necessari al servizio del loro debito. Inoltre, la Germania si oppone fieramente ad iniezioni di liquidità in questi paesi da parte della BCE. Gli economisti tedeschi ed i banchieri centrali si giustificano dicendo di dover scongiurare la minaccia dell’inflazione. Ecco che si mescolano le lezioni storiche dell’iperinflazione tedesca del 1923 e la deflazione del 1931 con conseguente crisi occupazionale.
Questo errore di giudizio può facilmente ritorcersi contro: la reputazione della Germania in Europa sta scemando, sono cresciute drasticamente le tensioni politiche nei paesi in crisi con forte disoccupazione, ed anche l’eventuale rottura dell’Eurozona potrebbe minacciare l’economia tedesca, soprattutto le sue banche e l’export.
Gli Stati Uniti impararono a proprie spese cosa significasse assumersi la responsabilità della stabilità economica del mondo. La Seconda Guerra Mondiale fu una delle conseguenze della crisi (economica) degli anni ’30, crisi che probabilmente avrebbe potuto essere evitata.
Dopo aver fallito nel tentativo di stabilizzare il sistema economico del mondo nei primi anni ’30, dal 1945 gli Stati Uniti iniziarono a capire come solo la cooperazione economica possa portare ad un mondo pacifico e prospero. Con il piano Marshall e l’apertura del proprio mercato alle esportazioni europee, è stato possibile per il Vecchio Continente ricostruire la propria economia distrutta e, nel frattempo, gli esportatori statunitensi hanno potuto giovare della fame dell’Europa per beni di consumo e d’investimento.
Fino ai primi anni ’70 gli Stati Uniti sono stati leader nel commercio internazionale e nel sistema monetario – il sistema di Bretton Woods – che ha garantito la prosperità economica e un mercato libero basato sull’equità sociale ovvero i prerequisiti per le democrazie sociali.
Sia il pubblico che i politici tedeschi dovrebbero imparare dalla storia. La solidarietà con i paesi in crisi è nell’interesse di lungo periodo della Germania. Il governo tedesco dovrebbe smettere di abusare del suo potere nel dettare il declino economico delle altre nazioni (europee). L’alternativa è la stagnazione economica e l’aumento delle tensioni tra i paesi dell’area euro. Il verdetto ancora non è scritto, ma una cosa è certa: coloro che non sono disposti ad imparare dalla storia, sono destinate a ripeterla.”

Al solito… Riflettiamo gente, riflettiamo!

The Quest of two Mario

Mario & Mario. Mario al quadrato.

Mario è il nome dell’anno, c’è poco da fare. Mario è il nome che s’invoca oggi in Italia.

Da un lato, Mario Draghi, il Presidente della BCE, che viene tirato per la giacchetta perché l’istituzione da lui guidata diventi the lender of last resort d’Europa; in barba ai trattati ed in barba a molti tedeschi che sbuffano di fronte ai PIIGS.

Dall’altro, Mario Monti, che è stato appena nominato senatore a vita e che, ormai pare candidato in pectore alla guida di quel governo tecnico che si fa sempre più probabile.

Del primo abbiamo già ampiamente parlato e non pare, almeno per adesso, che intenda cominciare a stampare carta moneta come il suo omologo americano (vi ricordate di Helicopter Ben?), in ragione anche delle ultime analisi di Bankitalia e di Fitch.

Del secondo qualcosa possiamo dire. Senza dubbio è una personalità di spicco del quadro economico e politico europeo; è un tecnico, un tecnocrate, e questo depone a suo vantaggio, e pare godere di una grande fiducia da parte di Napolitano, che lo ha nominato in fretta e furia senatore a vita, quasi come se volesse far accettare a tutte le componenti del Parlamento che è lui il civile servitore della patria in questo momento così difficile.

Dopo che i mercati – specie londinesi – ci hanno per l’ennesima volta impallinato e dopo che Mr Doom ha profetizzato il taglio di capelli anche per noi, sul Ft ci si rivolge a Draghi dicendo: “it’s time to fire the silver bullet, Mr Draghi” .

Io mi rivolgo a lei, Mr Monti: “Trasformati in…

… e lanciati nel salvataggio della Principessa Italia!”